Se a più di sei mesi di distanza dalla sua uscita si ascolta una canzone in radio ancora molto spesso si può dire che si tratta di un tormentone. Se poi questa ha venduto non-si-sa-quanti-milioni di copie in tutto il mondo, lo è senza ombra di dubbio. Ogni tanto, si sa, ne emerge uno nuovo, e il problema solitamente riguarda la qualità: non sempre ma quasi, a grandissime ed improvvise vendite corrispondono pezzi pessimi da più di un punto di vista: composizioni banali per non dire becere, suoni non proprio ricercati e arrangiamenti fatti con l’accetta. Che invece il tormentone, ovvero la canzone più suonata, condivisa, reinterpretata e ascoltata degli ultimi mesi –Happy di Pharrell Williams, ovviamente- possa essere un’eccezione? L’abbiamo ascoltata (e ballicchiata, è impossibile negarlo) abbastanza per provare a tracciarne un bilancio.
Pharrell Williams non ha bisogno di molte presentazioni, anche per chi non apprezza particolarmente il pop o l’hip hop: quarantun anni anche se non si direbbe, ha innegabilmente forgiato un determinato tipo di suono tipico degli anni duemila, con lavori ugualmente davanti e dietro le quinte. Oltre ad essere stato parte dei Neptunes prima e dei N.E.R.D poi, negli anni ha messo lo zampino in brani e produzioni per Jay-Z, Justin Timberlake, Madonna, Snoop Dogg, Strokes e, come saprete se durante l’ultimo anno non avete vissuto su Marte, i Daft Punk. Non è proprio l’ultimo arrivato insomma, e infatti Happy non è una hit preconfezionata con un qualche featuring di bassa lega ma un pezzo scritto, prodotto e arrangiato dallo stesso Pharrell. Per la precisione, scritto nove volte prima della sua versione definitiva, e onestamente la sottoscritta dubita che Michel Telò possa dire lo stesso di Ai se eu te pego, che ci ha fatto sanguinare le orecchie per mesi non troppo tempo fa. Happy ha invaso le radio, le bacheche dei social network e le classifiche come e più di quest’ultima, ma è un prodotto completamente diverso: nel calderone c’è del pop, il funk, l’amato r’n’b e anche un po’ di gospel, soprattutto nell’ispirazione del brano. Ha una struttura essenziale nella sua semplicità ma estremamente studiata, sapientemente costruita e resa contagiosa dai suoni perfettamente cadenzati. E’ difficile che non piaccia, e comunque anche chi non la apprezza non riesce a stare fermo. Come suggerisce Chris Molanphy su Slate.com, era dai tempi di Hey Ya! di Andre 3000 degli OutKast che un pezzo pop-funk della stessa qualità non riscuoteva tanto successo –e guadagnava altrettanto rispetto- a livello mondiale.
Il videoclip, poi, è stato un colpo di genio altrettanto ben assestato: basato su un’idea altrettanto semplice quanto fotograficamente curata, è stato declinato dal collettivo francese We are from L.A. in molteplici episodi da quattro minuti per ventiquattro ore di girato gestibili autonomamente dallo spettatore su un apposito sito (questo, se non l’avete ancora visitato). Michel Telò non aveva avuto nemmeno questo slancio, e nella sua carriera non ha nemmeno fatto mai ballare Meryl Streep durante la cerimonia di premiazione degli Oscar. Il fenomeno pop scaturito dalla canzone è andato ben oltre anche le aspettative dello stesso autore: YouTube è pieno di rifacimenti del videoclip sulle note del brano, provenienti da una quantità imbarazzante di città del mondo, da Rio de Janeiro a Tokyo fino alla più piccola frazione italiana. Provate a cercarli, non li vedrete mai tutti. In un’intervista rilasciata a Oprah Winfrey infatti, Pharrell è apparso sinceramente commosso dall’entusiasmo e dai sorrisi con cui persone di tutto il mondo si sono appropriate del suo brano: dev’essersi sentito una specie di dio.
Happy sembra essere molto più che un tormentone, dunque, e lo dimostra il fatto che nonostante i molteplici ascolti piace ancora a tutti, e molte meno persone di quanto sarebbe successo con altre canzoni se ne sono stancate. Potrebbe quasi essere definito l’Inno alla Gioia dei nostri tempi, che sono decisamente oscuri, e in effetti non può farci male mettere da parte ideologie individualiste, differenze sociali, religiose o politiche e più in generale i gravi problemi delle nostre nazioni per quattro minuti, per girare un video e ricordarci che, volendo, potremmo aspirare anche a qualcosa di positivo e meno aggressivo del solito: mi dispiace per te, Miley Cyrus, ma non c’è nemmeno del sesso di mezzo! Ha un messaggio leggero, ha un bel suono, si fa ascoltare ancora con piacere e forse inconsapevolmente è riuscita a unire con un progetto divertente più persone di quanto chiunque si sarebbe mai aspettato (e più di quante qualsiasi programma politico abbia fatto). Che Pharrell abbia quindi scritto la canzone pop perfetta? Magari no, si tratta di un giudizio troppo complesso da pronunciare, ma di certo c’è andato molto vicino.