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Primo Maggio: la Cina, il rock e lo Strawberry Festival a Shanghai (di Stefano Capolongo)

20140501_145838“Primo maggio di festa, oggi nel Vietnam e forse in tutto il mondo”: così nel 1976 Claudio Lolli esprimeva il suo amaro ricordo per la miriade di vittime cadute durante l’appena conclusasi guerra del Vietnam. Da sempre il primo maggio, Festa dei Lavoratori, porta con se più gioie che dolori, complici le morti bianche e un lavoro che ormai sembra essere un miraggio. Proprio ieri (l’altroieri ndr) sul palco del Concerto del Primo Maggio, un Piero Pelù al limite del populismo gridava che Renzi altro non è che ‘il boyscout di Licio Gelli’, una vox-populi che conferma il clima teso che ogni primo maggio porta con sè e dal quale a stento, almeno nel nostro paese, riusciamo ad affrancarci.
Ad oltre 9000km di distanza dal palco di Piazza San Giovani, dove stava per consumarsi l’ennesimo teatrino nazional-popolare mascherato da resistenza, a Shanghai (R.P.C.) sui palchi dello Strawberry Music Festival (草莓音乐节) gli strumenti e le voci avevano già cominciato a scaldare gli animi. Ma andiamo per gradi. Prima domanda: cos’è lo Strawberry Music Festival? Nient’altro che un festival organizzato dalla pionieristica etichetta discografica cinese Modern Sky, arrivato ormai oltre la decima edizione e che raccoglie band cinesi ed internazionali di prima linea. Oltre a Shanghai farà tappa a Pechino, Wuhan, Xi’An, Shenzhen, Chengdu, Guangzhou, Changsha, Changchun e Xiamen: insomma, meglio dello Sziget. Seconda domanda: chi suona? Oltre a band e cantautori di punta della scena cinese SAM_0440(Haigui Xiansheng, Dinglou de Maxituan, Diku’ai, Ershou Meigui), Djs e tanti emergenti, alcuni roboanti nomi del nuovo e vecchio continente: Justice, Explosions in the sky, Club 8, Swallow the sun, HIM. Terza domanda, che è quella più importante: che rapporto c’è tra il rock e il popolo cinese?

In principio fu Cui Jian (崔健) che nel 1984, ad appena 24 anni, diede alla luce a Pechino un brano che lo avrebbe consacrato come il padre del Rock Cinese (中国摇滚). In quegli anni, nel mondo occidentale, libero (si fa per dire) da censure e dittature, i Beatles e i Rolling Stones si erano già spartiti da tempo l’immaginario collettivo musicale dei 60s e il progressive e gli acidi dei 70s avevano già ceduto il passo al pop degli anni 80, visto da molti come la morte di un genere. La Cina invece, musicalmente parlando, non ha vissuto nulla di quanto sopra menzionato, e cominciò ad affacciarsi al rock moderno SAM_0443propriamente detto proprio in quest’ultimo periodo, soprattutto a causa della comparsa di testi a carattere sociale e politico. Tornando al nostro Cui Jian, il brano di cui parlavamo si chiama Nothing in my name (一无所有) e già il titolo rappresentava un forte punto di rottura con le illusorie politiche post-maoiste in vigore al tempo. Il senso di disillusione dei giovani cinesi degli anni ’80 non poteva più essere contenuto, e questo brano ne divenne simbolo, tanto da trasformarsi nella colonna sonora della rivolta studentesca del 1989 a Piazza Tian’an Men. Il ‘non avere nulla’ cantato da Cui Jian ben rappresentava la confusione e il disorientamento aleggiante. Analizzando due passaggi del testo, in cui una donna critica un uomo per non avere nulla in suo possesso, emerge con forza viva quanto affermato, in particolare il senso di perdita nel primo e lo sconvolgimento imminente nel secondo.

我曾经问个不体/你何时跟我走/不你却总是笑我/一无所有
Ti ho chiesto mille volte quando saresti stata con me, ma tu mi hai sempre preso in giro dicendo che io non ho niente.

脚下的地在走/身边的水在流
La terra sotto i tuoi piedi si muove e l’acqua intorno al tuo corpo scorre.

Da questa storica cesura, seppur con tutte le censure e le difficoltà del caso, nacque un movimento che seppur ostacolato non poté più avere freni. Dopo Tian An’Men, il 17 e 18 Febbraio 1990 fu tenuto a Pechino il più grande concerto rock mai visto fino ad allora. Tra le band, presenziarono i Tang Dinasty e, ovviamente, gli ADO di CuiSAM_0450 Jian. Dopo un lieve declino intorno alla metà degli anni novanta e una ripresa a partire dal nuovo millennio, la musica rock cinese ha cominciato a sviluppare un suo standard, fatto di radici ma anche di innovazione, strizzando sempre l’occhio agli Stati Uniti. Il gap qualitativo sull’offerta live, poi, è stato colmato a tempo di record, basti pensare al concertone dei Rolling Stones tenutosi a Febbraio proprio a Shanghai. Sebbene la mannaia della censura, dopo Bjork ed Elton John, abbia colpito anche loro (Honky Tonky Woman è stata tagliuzzata), non si può non affermare che il rock in Cina stia viaggiando come un treno in corsa.
Proprio per questo noi di Relics abbiamo voluto provare quanto affermato e ci siamo recati nella moderna Shanghai SAM_0462per seguire la prima data dello Strawberry Music Festival, il primo maggio. La Festa dei Lavoratori (劳动节, laodong jie), sentitissima in Cina, è l’occasione per la maggior parte della popolazione che riesce a permetterselo, di fuggire dal caos delle proprie città (l’urbanizzazione è in crescita vertiginosa) per recarsi in posti turistici altrettanto affollati e il festival è sembrato a molti l’occasione giusta. Nonostante anche qui la forbice sociale sia in continuo allargamento, pochi hanno storto il naso di fronte alla richiesta per un day pass di 180 RMB (circa 20 euro) in prevendita o di 260 RMB (circa 30 euro) alla porta. Alle 15 circa e a cancelli già aperti, la folla è roboante e nella prima vera giornata di caldo dopo mesi spuntano come funghi cappellini artigianali e tipici ombrelli parasole. La struttura ospitante è l’immenso parco dell’Expo che si snoda nel suo moderno splendore tra il fiume Huangpu, il China Art Museum (che fu padiglione cinese durante l’Expo 2010) e la Mercedes Benz-Arena. Per l’occasione sono stati allestiti 5 palchi: Electronic Stage, School of Rock Stage (dedicato agli emergenti), Planet Stage, Love Stage e il principale, lo Strawberry Stage. Tra tende da campeggio, bivacchi e miriadi di banchettiSAM_0461 commerciali e alimentari percorriamo il quasi chilometro che ci porta al main stage dove stanno per suonare gli Explosions in the sky. Appena quaranta minuti per la band statunitense che bastano però a gremire il parterre e incantare tutti con il loro post-rock brevettato. Subito dopo è il momento di una band cinese che molti attendevano: i 重塑雕像的权利 (Chongsu diaoxiang de quanli). Una tastiera e basso al femminile, una chitarra+voce e una batteria sono la line-up di un ensemble navigato che propone un repertorio fatto di dark wave in cui si percepiscono chiaramente le linee, gli accordi e la storia dei Joy Division e dei Bauhaus. Ci spostiamo e raggiungiamo il palco elettronico, dove una sequela di Djs si susseguono e fanno ballare il pubblico. Un delirio controllato, come è alla maniera cinese, esplode ad ogni beat lanciato dal palco. Più pacato e meno gremito è il Planet Stage, dove si da spazio al folk cinese di 树 (Shu) o dell’apprezzatissima 张浅潜 (Zhang Qianqian) che si intervalla agli storici Mňága a Žďorp (band cecoslovacca di lungo corso) e agli Swallow the sun. Parlando coi cinesi accorsi per questo evento si respira la loro allegria e la loro gioia per eventi ai quali ancora non sono del tutto abituati ma che rappresentano per loro qualcosa di capovolgente e innovativo. Mentre si fa sera e uno splendido tramonto cala tra i SAM_0484palazzi di Puxi baciandoci dolcemente, arriva il momento degli Alcest che si esibiscono nel Love Stage, unica location al chiuso di matrice industriale che ricorda perfettamente la copertina del famoso ‘Some great reward’ dei Depeche Mode. Prima di loro, a rubare la scena ci hanno pensato i Low Wormwood-低苦艾 (Di ku’ai), una delle band più amate nella terra di mezzo. Da quasi 15 anni regalano il loro folk-rock romantico intriso di tradizione, trascinati dall’istrionico 刘堃 (Liu Kun) alla voce. Il pubblico rapito tra lacrime e cori, accompagna i sessanta minuti del live creando un’atmosfera magica. Dopo di loro, il quartetto francese fatica a riempire il parterre, complice anche la concomitante esibizione degli headliner HIM nel main stage. Tuttavia, risolto l’empasse iniziale ed alcuni problemi di volumi, gli Alcest, guidati dal messianico Neige (che per l’occasione indossa una t-shirt dei Cure) fanno saltare i timpani ai presenti sciorinando le varie facce del loro repertorio. Dal black metal allo shoegaze, dal dream pop al post rock, tutto al posto giusto per una band che sembra aver trovato al propria quadratura del cerchio. La SAM_0504scena finale è tutta per gli HIM. Attesi da mezzogiorno non deludono le aspettative e sfornano l’esibizione più lunga della giornata, infiammando lo Strawberry Festival. Sono proprio i finlandesi a mettere la parola fine a questa prima giornata del festival alle 21.30, un orario inusuale ma che permette a tutti di tornare a casa o di muovere verso altri lidi potendo usufruire nientemeno che della metropolitana. Vi pare poco?
Un plauso va all’organizzazione, impeccabile e precisa, che ha reso questa giornata una festa. Eccezion fatta per una piccola rivolta di pubblico a causa di qualche transenna di troppo durante un’esibizione, nulla è andato storto e si è percepita l’elettricità tipica del grande evento.
SAM_0540E’ ormai quasi pleonastico affermare che la Cina stia cambiando poiché ciò è tangibile e sotto gli occhi di tutti. Negli ultimi tempi, due capisaldi della politica cinese come il figlio unico e i campi di lavoro stanno cominciando a cedere il passo a visioni più moderne e progressiste. Possiamo dunque dire che la Cina sta, ormai da anni, creando qualcosa di proprio anche a livello musicale e ciò è un prodotto nuovo ed intelligente, fresco ma ricco di storia. In Tatranky, gli Offlaga Disco Pax affermano che “l’eredità del comunismo non va cercata nell’architettura e nei simboli, ma nell’anima di un popolo”, ed eccola l’anima della gioventù cinese: amare comunque le proprie radici ma saper apprezzare senza spocchia ciò che viene da fuori, assimilandolo per creare un prodotto nuovo. Tradizione e innovazione stanno nella frase con cui ci ha congedato un ragazzo cinese col quale ci eravamo intrattenuti a parlare: “Ok, vado. C’è una band che viene da Pechino, sono fortissimi!”, il tutto sciorinato in un inglese perfetto.


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Stefano Capolongo

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