Questo è il periodo in cui non si parla di altro, del festival di Sanremo e tutto ciò che ne deriva, dagli artisti in gara, agli ospiti, ai retroscena fino ai ristoranti dove le personalità mangiano, con tanto di portate ordinate. Tutto ciò può avere una valenza, più o meno condivisibile (o come nel mio caso, per nulla), ma in questo martedì sera di metà febbraio non ci sono festival che tengano, stasera c’è Peter Hook: un personaggio che ha diviso molto i pensieri, le opinioni, i giudizi, dal “passa continuamente sul cadavere dei Joy Division” a “è un idolo assoluto”. Francamente non me ne frega nulla e decido di recarmi in fretta all’Atlantico, visto che di musica così bella e storicamente importante nei locali romani è difficile ascoltarla nell’ultimo periodo. Un concerto lungo, intenso ed a tratti emozionante. Nonostante non vi sia l’amato Bernard Sumner a suggellarne il valore, Peter Hook tiene il palco, suona il suo basso inconfondibile riportando alla mente dei ricordi piacevolissimi e il pubblico numeroso apprezza senza riserve, cantando in coro soprattutto i primi pezzi eseguiti, quelli dei Joy Division. Si parte infatti con Exercise One, No Love Lost e Twenty four hours per riscaldare il pubblico e si passa successivamente ai pezzi celebri come l’immortale Disorder e She’s lost control, in cui Peter non può esimersi dall’imitare vocalmente il mai dimenticato Ian Curtis.
Dopo una breve pausa, forse proprio per dividere nettamente il periodo Joy Division dal periodo New Order anche in termini scenici, si riparte e la musica cambia, ma non troppo, Dreams never end (che rappresentò il legame ancora forte con Curtis e divise gran parte dei fan sul cantato troppo simile nelle intenzioni, come buona parte dell’album dal quale è tratto, Movement), Truth, Chosen Time, ICB, per poi passare all’apparente leggerezza delle composizioni dei New Order successivi, che raccolsero sapientemente alcune critiche scaturite dall’album Movement e le sfruttarono per creare un sound elettronico inconfondibile, geniale ed ancora oggi amato ed influente. Temptation apre le danze per Ecstasy, Age of Consent, We all stand, The Village, Your silent face, tutte tratte dall’album Power, Corruption & Lies, del 1983, di fatto un concerto che è stato basato principalmente su questo lavoro, tralasciando forse un po’ troppo tutto il resto. Sono infatti le grandi assenti ad aver lasciato un po’ perplesso il pubblico: da True faith a Bizarre love triangle e The perfect kiss, solo per citarne alcune. Probabilmente l’eccessiva diversità tra le doti canore di Sumner e Hook ha determinato questa scelta.
Ma a lasciare perplesso anche me è l’assenza di Love will tear us apart. Proprio così, il brano più famoso dei Joy Division che viene letteralmente ignorato nonostante la possibilità per Hook di poterla cantare senza fare un eccessivo torto a Curtis (a mio avviso), proprio in virtù del fatto che il pubblico era li per poterla sentire, ricordarla, per ricordare soprattutto Ian e la sua influente personalità a distanza di decenni. C’è da sottolineare che verso la fine del live il tastierista ha abbandonato il palco per motivi di salute (come specificato dallo stesso Hook), fosse stato questo il motivo di questa scelta? Nonostante tutto, la scelta di Ceremony e Shadowplay in chiusura è stata una buona consolazione per tutti i fan presenti, anche se Blue Monday lasciata in sottofondo tra un bis e l’altro, c’è da ammetterlo, è stato un vero e proprio sacrilegio.
Un bel live dal sapore un po’ amaro. Peccato Peter.
TAG: Atlantico Live Daniele Latini Joy Division New Life Promo New order peter hook Relics controsuoni Stefano D'Offizi the light