Colpi di scena e una delle band più importanti nello scenario neo-noise/shoegaze hanno caratterizzato la serata al Black Out Rock Club di Roma. In scena gli A Place to bury strangers, campioni di carattere (assai decadente) che raccolgono i frutti di tutto ciò che è stato seminato da esperienze oscure come quelle dei Sisters of mercy, Jesus & Mary Chain, Primal Scream e chi più ne ha più ne metta.
Ovviamente, alla lunga questa “retromania” nel trarre spunto sempre dal passato per costruire il proprio sound può stancare, ma questa band ha sicuramente qualcosa in più da raccontare. Il muro di “rumore” che divide le melodie dall’orecchio dell’ascoltatore è caratterizzante soprattutto nei primi due album, molto meno nell’ultimo lavoro, Worship, che mescola elementi tipici della dark-wave (una batteria riverberata spregiudicata) ed effetti ben più che selezionati tra i pedali a disposizione, ma costruiti, studiati e miscelati come in un cocktail delizioso e perfetto.
Si potrebbe parlare del terzo centro pieno del gruppo newyorkese ed un tour all’insegna di live coinvolgenti con un allestimento fondamentalmente semplice, ossia 6 o 7 proiettori che si incrociano con un fumo perenne creando uno scenario sognante e che valorizza i pezzi creando un dolce connubio tra noise e bellezza visiva da non sottovalutare.
Ad aprire il concerto i BAMBARA, band rumorosa, batterista molto veloce e poco più.
Arrivano i tre newyorkesi e si parte subito con uno dei lavori più famosi, In your heart, tratto dal secondo album Exploding head, un tuffo incredibile nella wave dei tempi d’oro, un singolo dalla potenza sconvolgente e pietrificante, in pieno stile Killing Joke: dopo anni di numerosi live indie-borghesi era quello che ci voleva per dare subito l’idea del concerto che si sarebbe svolto.
Si continua con You are the one, altro brano importante dell’ultimo album della band, che richiama ai Joy Division in maniera palese e da applausi. Mind Control dà la carica giusta al pubblico col suo rumore bianco e via con Dead beat, puro distillato shoegaze e noise sparato nelle vene attraverso feedback ossessivi e un’esecuzione sfrenata.
Oliver Ackermann, vera e propria mente del trio, stupisce il pubblico con l’effettistica utilizzata per la sua chitarra, assolutamente originale e imprevedibile. Non è un caso che sia un costruttore di tale strumentazione e la commercializzi tramite la sua società Death by Audio a clienti come U2, Nine Inch Nails e Wilco.
Ma nei concerti nulla è scontato ed è qui che avviene il patatrac! Segnali audio che vanno e vengono, voce che sparisce e torna con volumi inaccettabili, band che continua così per due brani nella speranza che i fonici risolvano qualcosa per non scontentare il pubblico con l’interruzione del live, ma Ackermann va fuori di testa (come biasimarlo?) e decide di spaccare la chitarra e lanciarla sui piatti della batteria. Scena vista e rivista per puro atteggiamento e per fare gli spocchiosi, raramente per rabbia giustificata. Ma la classe la si riconosce anche in momenti del genere ed il bassista Dion Lunadon sforna un’opera d’arte moderna, infilzando i controsoffitti con il proprio strumento e lasciandolo appeso li, come testimonianza della “tragedia”.
Tra pubblico alterato e band altrettanto, i fonici decidono di annunciare una piccola pausa di 15 minuti per porre rimedio al guasto, fortunatamente riuscendoci. La band torna dopo una pausa sigaretta, ma la magia del concerto risulta inevitabilmente rotta.
Seguono brani come Drill it up ed uno dei capolavori della band, Keep Slipping Away, con un sound di matrice clamorosamente eighties wave, che riporta gli spettatori a godersi il concerto dimenticati gli inconvenienti tecnici. Ovviamente l’esecuzione, seppur tecnicamente ineccepibile, risulta privata dall’effettistica che fino a quel momento aveva portato ogni brano al limite della perfezione.
Il concerto si conclude quindi con I Lived My Life to Stand in the Shadow of Your Heart, tratta dal secondo album Exploding Head, con una band che ringrazia il pubblico, visibilmente delusa dal risultato finale della performance.
In una sola parola: Peccato!
(Più tardi, verremo a conoscenza del suono di un’altra campana: a quanto pare, i livelli acustici del terzetto Newyorkese erano ben oltre i livelli consentiti dalle strumentazioni che in tutta risposta, registravano un clamoroso overload ed interrompevano il segnale in uscita per evitare danni ben più gravi N.d.R.)