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My Bloody Valentine @ Orion Live Club (Testo di Simone Vinci, foto di Karol Banach e Roberta Mento)

I My Bloody Valentine a Roma. Un evento quasi unico nella storia, dopo 15 anni di inattività, per l’apertura della stagione del Postepay Rock in Roma. Basterebbero, per gli intenditori, solo le prime sei parole di questa recensione per capire perfettamente l’importanza di un evento simile.

Il concerto, anteprima del succitato festival, si svolge prima dell’evento di apertura con i Green Day il 5 Giugno e vede salire sul palco uno dei gruppi più importanti della scena Shoegaze, quella di Jesus and Mary Chain, Slowdive, Ride, Catherine Wheel. The Base fa le cose in grande e le fa bene, portando all’Orion, la band irlandese dopo praticamente 15 anni di inattività. Sì, perchè i My Bloody Valentine sono delle pietre miliari, nella musica a cavallo tra fine ottanta e primi anni novanta, nonostante abbiano inciso solo 2 album, almeno fino al Febbraio scorso.

La loro carriera inizia nel 1983, a Dublino, dove Shield, O Ciosoig e Conway, prendono il nome di un famoso b-movie del 1981 (in Italia conosciuto come “Il giorno di San Valentino”). Dopo varie peripezie, riescono ad incidere il loro primo EP “This is Your Bloody Valentine” nel 1985. Nel 1987 Conway lascia il gruppo ed arriva la cantante e chitarrista Belinda Butcher e la line-up rimarrà stabile fino ad ora con Kevin Shield (voce, chitarra ed effetti), Belinda Butcher (voce e chitarra), Colm O Ciosoig (batteria) e Debbie Googe (basso).
Nel 1988 esce il loro primo Lp, “Isn’t Anything” e dopo tre anni di travaglio esce uno dei dischi più belli dell’intero panorama degli anni 90: “Loveless”, contenente tracce come Only Shallow, Sometimes, When You Sleep, un disco che costò alla loro etichetta, la Creation Records, la bancarotta. Il gruppo si prende una pausa che li vedrà riunirsi solo nel 2007, quando Shield annuncia il nuovo album e qualche concerto, ma sembra un incubo senza fine e del disco nessuna traccia, fino a Febbraio 2013, quando esce a sorpresa “mbv”, cui segue l’annuncio delle due date italiane a Bologna e a Roma.
Così eccoci al 29 Maggio, giorno dell’anniversario della morte di Jeff Buckley, ed eccomi catapultato all’improvviso a Ciampino, all’Orion, in fila. Sono nervoso, emozionato e ancora non troppo conscio della situazione.

Sul palco c’è un muro di amplificatori, casse e testate per chitarra, uno di casse e testate per il basso, una batteria e una tastiera; sì perchè lo Shoegaze(guardarsi le scarpe), pende il nome dal fatto che l’utilizzo di effetti per chitarra porta colui che la imbraccia, a guardarsi le scarpe per il 90% del tempo per gestire il numero sconsiderato di pedali per gli effetti della suddetta chitarra, al solo ed unico scopo di creare un muro di suono. Un amalgama di riverberi, tremolii, ritardi, rimbalzi. Un orgia di onde da far perdere il senso dell’orientamento tant’è che, come spesso succede, all’ingresso si distribuivano tappi per le orecchie.

Salgono sul palco e vederli è emozionante, la delicatezza senza tempo della Butcher e l’anzianità tangibile di Shield. L’approccio è soft, con I Only Said e When You Sleep. Il suono è pieno ed ovattante, immerge nelle immagini confuse del video-arte proiettato su di loro, interrotto solo dai flash del pubblico, perchè, per richiesta della band, non sono stati ammessi fotografi professionisti all’interno del classico Pit. Una cosa, su When You Sleep, salta alle orecchie: l’assenza completa della voce. Il genere di certo non si presta al cantato, coperto persino su disco dal muro sonoro di cui sopra, ma le smorfie di Shield lasciano intendere altri problemi, tant’è che al terzo pezzo, New You, interrompe l’esecuzione lamentando un volume di chitarra troppo basso e la voce della Butcher assente. Succede altre tre volte durante il resto del concerto, mentre il pubblico dietro di me urla “VOCE!”, con vari intervalli tra una canzone e l’altra in cui Shield usciva a colloquiare con il suo assistente o via microfono con il fonico di sala.

Su You Never Should” la situazione migliora, inizio ad aver i fischi nelle orecchie, mentre Shield e O Ciosoig ci danno dentro, vogliono staccarci le orecchie e lo stanno facendo bene. Esce la bravura di un gruppo capace di farti saltare il cervello, se volesse. I primi, cautamente, iniziano ad infilare i tappi concessi dal gruppo per evitare la sordità.
Due pezzi storici, Honey Power e Cigarette in Your Bed, precedono Only Tomorrow, il primo pezzo tratto da “mbv” e Come in Alone, che arriva come un cazzotto allo stomaco, in cui il cantato si perde nelle distorsioni della chitarra. Only Shallow fa saltare qualcuno tra il pubblico, le teste ondeggiano  cercano di percepire le parole perse tra i riverberi. Thorne e Nothing much to lose continuano a prenderti allo stomaco, mentre non senti altro che loro. Qualcuno si avvicina per dirmi qualcosa, ma il mio udito è andato e non mi importa, sorrido e faccio cenno di si.
Who See You e To Here Knows When non ti fanno capire nemmeno più dove sei, sei in una bolla di riverberi, in cui l’unico appiglio al pavimento è la batteria che ti arriva in pancia. Soon è la quiete prima della tempesta. Feed Me With Your Kiss, You made me realize e Wonder 2, attaccate, sono troppo e quando è troppo, si rischia l’infarto. La prima scivola nella seconda che scivola nella terza. Il minimo di melodia diventa un ripetitivo loop. O Ciosoig alterna a velocità smodata crash e ride, gli altri si impostano su un accordo, accendono tutti i pedali che hanno, il suono, inizialmente, sembra uno sciame di jet che ti passano sulla testa, il suono si posa sul pubblico inerme, che indossa i tappi per il frastuono. Le immagini su di loro sono sempre più confuse. Metto i tappi anche io e grazie ad essi riesco ad intuire la trama sonora ma è relativo. Dieci minuti di delirio in cui non capisci se sono elementi dissonanti o consonanti, dieci minuti in cui sei da solo col suono. I prima fila mi tremavano i denti per il frastuono, giuro. Non ha più importanza niente.
Arriva la fine e ci metto un po’ a riprendermi, loro escono con un cenno di saluto, qualcuno regala dei fiori alla Butcher. Il pubblico rumoreggia e invoca il bis, che la band non concede quasi mai, per scelta, qualcuno invoca Sometimes, il pezzo divenuto famoso per essere contenuto in Lost in Translation di Sofia Coppola, ma senza successo. Scelgono loro di tormentarti e poi lasciarti lì, anche ad aspettarli sotto la pioggia per l’autografo.

Scambio qualche parola con altri del pubblico e c’è chi si lamenta dei problemi audio, chi sostiene che dal fondo si sentisse molto meglio, chi era lì per caso perchè gli avevano regalato il biglietto credendo che fosse per i Bullet for my Valentine. Mezz’ora per riprendermi e nemmeno ora che scrivo questa recensione ho recuperato l’udito. Ma fa parte della musica dei My Bloody Valentine, che sono riuscito a sentire, forse per la loro unica data a Roma della carriera, nell’anniversario della morte di Jeff Buckley.

Grazie a Stefano e a Relics per la possibilità.

Setlist:

i only said
when you sleep
new you
you never should
honey power
cigarette in your bed
only tomorrow
come in alone
only shallow
thorn
nothing much to lose
wo sees you
to here knows when
soon
feed me with your kis
you made me realise
wonder2


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